La pianta del melograno (Punica granatum L.), appartenente alla famiglia botanica delle Lythraceae, è una specie archeofita (specie esotica o aliena introdotta nel territorio prima della scoperta dell’America, per convenzione prima del 1500), naturalizzata, non invasiva, originaria dell’Asia sud-occidentale, ma presente sul territorio italiano e in tutto il bacino del Meditterraneo (Celesti-Grapow et al., 2009). Secondo l’etimologia, il nome del genere Punica deriverebbe da malum punicum, che significherebbe ‘mela cartaginese’ (secondo Plinio, i melograni crescevano nella terra di Cartagine, da cui ne avrebbero preso il nome), mentre il nome della specie, granatum, deriverebbe da gránum, ossia grano, e significherebbe ‘che ha molti grani’.
Il melograno è una pianta legnosa con portamento cespuglioso o arboreo che può arrivare ad un’altezza media di 2-4 m, fino a 6-7 m in determinate condizioni. Esso è una pianta longeva che predilige un clima temperato caldo e un’esposizione soleggiata, essendo particolarmente resistente ai suoli asciutti e alla siccità. Entra in sofferenza se le temperature scendono al di sotto dei -10 °C. Le foglie sono caduche, strette ed oblunghe (larghe circa 2 cm e lunghe 4-7 cm), mentre i fiori sono di colore rosso vivo (o altre tonalità di rosso a seconda della cultivar), di circa 3 cm di diametro e con 3-4 petali.
Il frutto carnoso e indeiscente chiamato melagrana è una grande bacca (balausta) di colore rossiccio o giallo rossastro e di forma sferica (5-12cm x 5-12cm), caratterizzata da una buccia molto coriacea. Il frutto ha diversi setti interni, costituiti dall’endocarpo membranoso e giallastro (midollo e membrana carpellare), che formano delle logge all’interno delle quali si trovano i semi (7x4 mm circa), chiamati arilli (fino a 600 ed oltre per frutto) e racchiusi in una polpa traslucida colorata di granata o rosso rubino, tali da apparire carnosi (Figura 1).
Figura 1. La melagrana è una bacca (balausta) carnosa e indeiscente. É costituita da un pericarpo a sua volta siddiviso in una scorza esterna coriacea (esocarpo), un tessuto intermedio bianco e spugnoso (albedo o mesocarpo) e un tessuto membranoso interno (endocarpo) che suddivide i loculi, all’interno dei quali si trovano i semi (arilli) carnosi e traslucidi.
Gli arilli rappresentano l’unica parte commestibile della pianta ed hanno un sapore acidulo, mentre sono dolciastri e profumati nelle cultivar a frutto commestibile. Infatti, esistono molte varietà di melograno, che si distinguono in base al colore e alla dimensione dei frutti, così come al sapore e all’aroma dei semi. Allo stesso modo, le dimensioni ed il portamento arboreo della pianta sono fortemente condizionate dal genotipo della cutivar oltre che dalle condizioni pedoclimatiche e agronomiche. In Italia, sono diffuse le cultivar Dente di Cavallo, Neirana, Profeta Partanna, Selinunte, Ragana, Racalmuto e Wonderful.
I frutti della pianta di melograno vengono utilizzati, nella maggior parte dei casi, per il consumo fresco, oltre ad essere anche destinati alla preparazione di sciroppi, succhi di frutta, bibite, prodotti dolciari e di pasticceria e per la produzione di integratori alimentari. La melagrana è un alimento ricco di vitamina C e composti fenolici dall’elevata attività antiossidante. In particolare, il frutto contiene circa il 50-52% di arilli, mentre il restante 48-50% è costituito da buccia, albedo e membrana carpellare, con ciascuna parte contenente differenti composti fitochimici, tra i quali i più rappresentativi sono le antocianine (o antociani) e gli ellagitannini (Mottaghipisheh et al. 2018; Kushwaha et al. 2020).
Le antocianine sono dei pigmenti idrosolubili presenti in svariati tessuti e organi vegetali, ai quali conferiscono le tipiche colorazioni caratterizzate da differenti tonalità di rosso e blu. Sono particolarmente abbondanti nei fiori e nei frutti, nei quali svolgono la funzione di segnali visivi attrattivi per gli animali responsabili dell’impollinazione dei fiori e della dispersione dei semi. Dal punto di vista fitochimico, le antocianine sono dei polifenoli appartenenti alla famiglia chimica dei flavonoidi, sintetizzati a partire dall’aminoacido aromatico essenziale fenilalanina attraverso la via biosintetica dei fenilpropanoidi, esclusiva del mondo vegetale. Sono eterosidi (o glicosidi), ossia molecole formate dall’unione, attraverso un legame glicosidico, tra un gruppo funzionale non zuccherino (aglicone), il catione flavilio, ed uno zucchero (glicone) riducente, generalmente un esoso o un pentoso. Gli agliconi vengono anche chiamati antocianidine e sono glicosilati principalmente in posizione C3. La maggior parte delle oltre 600 antocianine ad oggi identificate derivano dalle sei più comuni antocianidine: cianidina, delfinidina, pelargonidina, peonidina, petunidina e malvidina (Figura 2) (Celli et al., 2019).
Figura 2. Struttura chimica, formula bruta e peso molecolare (PM) delle principali antocianidine (agliconi delle antocianine).
Tra le più abbondanti antocianine presenti nel melograno vi sono la delfinidina 3,5-diglucoside, la cianidina 3,5-diglucoside, la pelargonidina 3,5-diglucoside, la delfinidina 3-glucoside, la cianidina 3-glucoside e la pelargonidina 3-diglucoside (Paul et al., 2018; Zhao e Yuan, 2021). La biodisponibilità orale delle antocianine dipende, in gran parte, dal metabolismo microbico a livello del colon, con gli acidi fenolici quali principali prodotti della biotrasformazione (Eker et al., 2020; Gui et al., 2023).
Gli ellagitannini sono dei polifenoli oligomerici appartenenti alla famiglia chimica dei tannini idrolizzabili. Essi sono esteri derivanti da unità di acido esaidrossidifenico o acido gallico, e da un monosaccaride, solitamente glucosio. La biodisponibilità orale degli ellagitannini è e molto limitata, essendo metabolizzati in maniera estesa dal microbiota intestinale. La loro idrolisi nel tubo digerente rilascia acido ellagico, anch’esso scarsamente biodisponibile, ma, a sua volta, trasformato nelle urolitine ad opera del microbiota intestinale, le quali si ritrovano in concentrazioni significative a livello ematico e urinario (Figura 3). Le urolitine sono responsabili di molte delle attività biologiche attribuite agli ellagitannini, con una grande variabilità interindividuale in funzione della bioconversione da parete del microbiota intestinale (Banc et al. 2023).
Figura 3. Struttura chimica, formula bruta e peso molecolare (PM) dei più importanti ellagitannini presenti nel melograno (punicalagina e punicalina) e dei loro principali metaboliti (acido ellagico e urolitina A).
I sottoprodotti e gli scarti della lavorazione industriale del melograno, in particolar modo le bucce e i semi che rimangono al termine del processo di estrazione del succo, rappresentano ancora una fonte di composti fitochimici biologicamente attivi nella quale si possono ancora trovare quantità significative di antocianine ed ellagitannini. Infatti, circa il 30% di tutte le antocianine contenute nella melagrana si ritrovano nella buccia (Omer et al., 2019), così come il contenuto di flavonoidi totali nella stessa matrice è più di 10 volte maggiore rispetto alle altre parti (Kalaycıoğlu & Erim, 2017). La medesima considerazione è valida per gli ellagitannini, in particolar modo punicalagina e punicalina, ritrovati nella scorza a livelli significativi (rispettivamente 296 mg/g e 15 mg/g) (Ibrahium, 2010). Di interesse è anche l’utilizzo di tali matrici per l’alimentazione animale, in un’ottica di benessere animale. Diversi studi hanno, infatti, documentato come l’integrazione della razione alimentare con questi sottoprodotti o scarti abbia effetti sui parametri di crescita e di riproduzione, oltre che sullo stato di salute, di alcune specie di interesse zootecnico (Shabtay et al., 2008; Oliveira et al., 2010; Yaseen et al., 2014; Natalello et al., 2019; Abd El-Ghany, 2023).
Un discorso analogo è possibile fare considerando alcune ‘parti’ della melagrana come materie prime secondarie. A differenza dei sottoprodotti, che non subiscono alcun trattamento, le materie prime secondarie sono residui di produzione che subiscono uno o più processi di recupero che permettono al materiale di scarto di acquisire caratteristiche idonee per svolgere la stessa funzione di una materia prima vergine all’interno di nuovi processi produttivi. Tale approccio permette di applicare un modello di bioeconomia circolare alla produzione di sostanze nutraceutiche in maniera sostenibile, poichè, com’è noto, qualsiasi forma di rifiuto possiede un impronta di carbonio, secondo la prospettiva zero waste enunciata nella ‘Direttiva Quadro Rifiuti’ 2008/98/CE, che sancisce la cessazione della qualifica di rifiuto in ambito giuridico e merceologico.
Un ulteriore aspetto importante è quello relativo ai processi estrattivi che detereminano la resa in principi attivi. Tali processi, a loro volta, dipendono dalla matrice di partenza, dalla propria struttura, tessitura, solubilità e proprietà chimiche, e dalle condizioni di temperatura, pressione e pH dell’estrazione. In generale, gli scarti agroindustriali, compresi quelli del melograno, sono ricchi di cellulosa, emicellulosa e lignina, polimeri che intereferiscono con le procedure di estrazione dei composti bioattivi e, pertanto, richiedono di un pretrattamento con metodi fisici, chimici o biologici. I metodi di estrazione convenzionale includono l’estrazione solido-liquido, la distillazione, l’utilizzo di un apparato Soxhlet e solventi organici, processi lunghi e dalla bassa resa, a fronte dell’elevato consumo energetico e dell’impatto ambientale. Inoltre, tali metodi presentano una bassa specificità e selettività, fornendo un’altrettanto bassa purezza dei composti che si vogliono estrarre, oltre al rischio di degradazione dei metaboliti termolabili. I moderni metodi di estrazione ‘non convenzionali’ permettono di far fronte alle limitazioni appena elencate, attraverso l’utilizzo di solventi ‘green’, come i fluidi supercritici e le miscele eutettiche, e fonti energentiche non termiche, come le microonde, gli ultrasuoni e i campi elettrici ad impulsi. Esistono, inoltre, processi biologici di estrazione che utilizzano microrganismi o enzimi, particolarmente efficaci nella degradazione delle pareti cellulari dei tessuti vegetali, migliorando l’efficienza di estrazione di composti biologicamente attivi (Arun et al., 2020; Lemes et al., 2022; Pai et al., 2022). Mettendo a confronto differenti metodi di estrazione (macerazione a freddo, estrazione mediante ultrasuoni, apparato Soxhlet o fluidi supercritici), la più elevata resa in polifenoli totali e, in particolar modo, in acido ellagico da bucce di melograna si è ottenuta in fase supercritica. Inoltre, l’estratto ottenuto con fluidi supercritici possedeva una buona attività antimicrobica verso batteri gram +, gram – e miceti (Kupnik et al., 2022). L’estrazione mediante liquidi o solventi pressurizzati (una combinazione di acqua ed etanolo ad elevata temperatura e pressione) rappresenta un’altra metodologia rapida e a basso impatto ambientale (rispetto ad una convenzionale estrazione solido-liquido) impiegata con successo per il recupero di polifenoli da bucce di melograna, con una resa pari a 164.3 ± 10.7 mg equivalenti di acido gallico/g ed una significativa attività antimicrobica dell’estratto stesso (García et al., 2021).
In conclusione, alcuni effetti benefici sulla salute legati al consumo di melograno e spesso tramandati dalla tradizione popolare sono stati dimostrati sia da studi preclinici in vitro e in vivo che clinici, sia su pazienti che in soggetti sani. In particolar modo, sono state documentate le attività antiossidante, antiinfiammatoria, ipoglicemizzante e ipolipemizzante, oltre a proprietà antitumorali, cardioprotettive e neuroprotettive. Tali studi sono stati effettuati utilizzando differenti matrici, perlopiù succo di melograno, ma anche estratti di bucce, polvere di semi ed olio di semi, quest’ultimo ricco di acido punicico, un acido grasso polinsaturo dalle proprietà antitumorali in vitro (Benedetti et al., 2023). In generale, l’attività farmacologica del melograno sensu lato è ascrivibile alla molteplicità dei propri costituenti fitochimici, tra i quali anche flavonoidi non antocianici e proantocianidine (o tannini condensati) oltre a quelli precedentemente descritti. Tale diversità chimica dipende, a sua volta, dall’agrobiodiversità, ossia la diversità genetica all’interno degli agroecosistemi, oltre che dalle caratteristiche del territorio, in una sorta di terroir nel quale le interazioni tra fattori edafici, climatici, ecologici ed agronomici (e non solo) influenzano il metabolismo secondario della pianta secondo il classico modello genotipo x ambiente.
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